San Giovanni Paolo II nei ricordi - UE
S.E. Jan Tombiński - Ambasciatore dell'Unione Europea presso la Santa Sede
San Giovanni Paolo II - alcuni ricordi personali e professionali
Il cardinale Karol Wojtyła era una figura ben nota e riconoscibile a Cracovia. Io, un ragazzo di pochi anni, tuttavia ero attratto non tanto dal suo carattere e dal suo carisma, ma dall'auto che poteva essere avvistata nella curia dell'arcivescovo nei pressi di via Franciszkańska o della chiesa di Sant'Anna. La Chevrolet blu-argento, un dono della Polonia americana, differiva così tanto da tutti gli altri veicoli visti ai tempi del comunismo, che attirava l'attenzione di ogni ragazzo. Più di una volta guardavo attraverso il vetro verso l'interno dell'auto, in cui mi colpiva la scrivania pieghevole con la lampada, montata sul retro del sedile del passeggero. Altre auto conosciute dalle nostre strade non avevano tali servizi e noi conoscevamo tutte le marche e i tipi di veicoli in città.
Vedevamo il Cardinale durante le processioni in occasione della festa del santo patrono della Polonia San Stanislao o del Corpus Domini, che anche durante il comunismo passavano per le strade di Cracovia e riunivano migliaia di fedeli. Il Primate della Polonia Card. Stefan Wyszyński spesso presiedeva queste cerimonie e al suo fianco c'era il "nostro" metropolita di Cracovia. Le Immagini e i ricordi di queste cerimonie pubbliche hanno oscurato nella memoria persino la Cresima, che ho ricevuto nei primi anni Settanta nella parrocchia di Stant'Anna per mano del cardinale Karol Wojtyła. Il futuro Papa celebrava regolarmente le messe domenicali nella nostra parrocchia, ma i suoi sermoni non erano affascinanti. I giovani preferivano andare a messa con una chitarra e cantare, cosa popolare negli anni Settanta.
Quando il 16 ottobre 1978 la televisione e la radio smisero di trasmettere i programmi per annunciare l'elezione del Metropolita di Cracovia sul soglio della Sede Petrina, all'inizio non credemmo ai nostri occhi e alle nostre orecchie. Fu solo il suono della Campana di Sigismondo della Cattedrale di Wawel, attivata solo per le festività più grandi, a convincere i residenti della città del significato storico della decisione del conclave. Fiumi di persone provenienti da ogni dove si recavano alla cattedrale sulla collina di Wawel per la messa di ringraziamento.
Le autorità comuniste videro nell'elezione del Papa polacco la possibilità di ricostruire almeno parzialmente la fiducia sociale. La televisione mostrava immagini da Roma e dal Vaticano dei primi momenti dopo l'elezione, mentre i sacerdoti erano invitati a discutere e commentare la trasmissione, che rappresentava una novità assoluta nel lato orientale della "cortina di ferro". Il messaggio era ovunque: "Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!". Nelle anime delle persone intimidite dal regime e stanche della mancanza di prospettive subentrarono speranza e gioia, tutti diventarono più vicini. Tutti si sentirono orgogliosi e si convinsero che ogni polacco era grande come il connazionale appena eletto capo della Chiesa universale. Perfino i non credenti provavano soddisfazione per l'elevato prestigio dello stato polacco.
Otto mesi dopo, Giovanni Paolo II arrivò con il primo pellegrinaggio in Polonia. La visita al capo della Chiesa cattolica in un paese comunista, e quindi formalmente ateo, era un avvenimento senza precedenti. Gli anni successivi hanno dimostrato quanto questo sia stato cruciale per la Polonia, l'Europa e il mondo intero, ma anche per la Chiesa universale. Nel giugno 1979, la Polonia accolse il Papa con città, chiese, case residenziali e negozi decorati a festa, manifestando l'attaccamento alla fede e alla Chiesa, sfidando l'ideologia ufficiale. Il messaggio "Lascia che il tuo Spirito scenda e rinnovi la faccia della terra. Di questa terra ", pronunciato dal Papa a Varsavia, divenne un incentivo e un impulso a cambiare la situazione nel paese, e la creazione del movimento Solidarność un anno dopo ne è stato il risultato più evidente.
Durante la sua permanenza, il Papa rimase per cinque notti a Cracovia, nella sua ex residenza al Palazzo Arcivescovile. Sono stato fortunato e ho avuto il privilegio di far parte di un gruppo di una trentina di studenti selezionati dalla curia per il servizio presso la sede dei vescovi di Cracovia. Dovevamo assicurarci, in accordo con il clero, che persone non autorizzate non entrassero nella residenza. Ciò era dovuto al timore di possibili infiltrazioni da parte dei servizi dello stato comunista, interessato a sapere con chi e di cosa parlasse il Papa. Dovevamo anche aiutare a favorire contatti tra le persone che si radunavano davanti all'edificio e i servizi ecclesiastici, a distribuire quadri con il Papa, sistemare i fiori che migliaia di persone trasportavano sotto la curia, disporre barriere per consentire al Santo Padre l'ingresso e l'uscita per le cerimonie in altre città o a Cracovia. Ho avuto l'opportunità di vedere Giovanni Paolo II un paio di volte ogni giorno e osservare le reazioni delle persone dinanzi alla Sua figura e alle sue parole.
Mi rimase impresso nella memoria un miliziano che, davanti alle barriere che circondavano il Palazzo Arcivescovile, chiese un'immagine raffigurante il Papa. Gliene diedi una, ma chiese immagini per l'intero reparto. Gli portai l'intero pacchetto, che nascose sotto il cappello allontanandosi in fretta. “Se questi sono gli stati d'animo della milizia, significa che i giorni del comunismo in Polonia sono contati”, pensai tra me e me.
L'ultimo giorno prima dalla sua partenza da Cracovia, salutò il Papa Wanda Rutkiewicz, la leggendaria alpinista che il 16 ottobre 1978, il giorno della sua elezione, fu la prima europea a conquistare l'Everest. Porse al Papa commosso, che amava così tanto le montagne e apprezzava il suo coraggio, una piccola pietra dall'Himalaya. In quel momento, ero proprio accanto al Santo Padre e ho sentito alcune sue parole sul sacrificio nello scalare le vette.
Dopo l'attentato in Piazza San Pietro il 13 maggio 1981, i polacchi furono uniti dalla paura per la vita del Santo Padre. Durante il periodo della grande rivolta della solidarietà in Polonia, l'attacco al Papa fu percepito come un colpo diretto alle aspirazioni appena risvegliate del popolo polacco e al loro avvocato più importante sulla scena internazionale. Nella "sua" Cracovia, gli studenti organizzarono una Marcia Bianca - la Marcia della Pace, che si concluse con una messa nella Piazza del Mercato. Diverse centinaia di migliaia di persone vestite di bianco marciarono in silenzio e riempirono il centro della città pregando per la pronta guarigione del Papa e contro la violenza. In una risoluzione che invitava a partecipare, avevamo scritto: "Questo candore è il nostro grido, la nostra protesta contro l'ondata di oscurità che sta inondando il mondo". Appartenevo al gruppo di organizzatori della Marcia Bianca e ricordo ancora oggi l'atmosfera presente tra i radunati, quando il terrore provocato dagli spari al Santo Padre era associato alla convinzione della vittoria del Bene sul male.
Il successivo pellegrinaggio in patria del 1983 ebbe luogo in un periodo difficile per i polacchi, ovvero dopo la soppressione di Solidarność nel dicembre del 1981. Con l'arrivo del Papa, le autorità sperarono in un certo rilassamento dei rapporti con il mondo e la maggioranza dei polacchi sostenne le aspirazioni del Santo Padre verso la libertà e la democrazia. All'Università Jagellonica, in cui fu studente, il Papa ricevette un dottorato onorario. Durante l'incontro con il Senato universitario ho avuto l'onore, insieme a quattro colleghi rappresentanti le singole facoltà, di consegnare a Giovanni Paolo in dono il cappello accademico, che si soleva indossare ai tempi dei suoi studi. In una breve conversazione, gli chiesi di ricordare e sostenere i nostri amici arrestati e imprigionati a causa delle loro credenze politiche.
Negli anni successivi per due volte, nel 1998 e nel 2003, ci siamo recati a Roma con tutta la famiglia per un'udienza con Giovanni Paolo II. La prima volta, mio figlio Stefano che aveva allora 3 anni restò così affascinato dai fotografi dietro il trono papale che, invece di restare con i suoi genitori, andò verso di loro. Da dietro, abbiamo sentito la voce del Papa: "Anche questo è Vostro?" Ci siamo girati e abbiamo visto Giovanni Paolo portare nostro figlio per mano nella nostra direzione. Quando nel 2003 nacque un altro figlio, lo chiamammo Karol. I figli più grandi ritenevano che dovessimo andare a Roma "perché il Papa non conosce ancora il nostro Karol". E così nel novembre 2003 ci siamo inginocchiati per l'ultima volta davanti al Suo trono, pieni di gioia per essere nella Sua vicinanza.
Lavorando nel servizio diplomatico polacco dall’anno della svolta del 1990, ho avuto più volte l’opportunità di sperimentare direttamente le reazioni agli insegnamenti di Giovanni Paolo II e l’influenza esercitata della sua sola presenza tra le persone.
Il pellegrinaggio in Cecoslovacchia nell’aprile 1990 diede l’impulso a “lasciare il sottosuolo” della Chiesa cattolica dopo anni di repressione comunista, sorveglianza, arresti e confische. Seguii con interesse il risveglio della vita religiosa dopo anni di persecuzioni. Solo pochi fratelli maggiori potevano ricordare la vita quotidiana nel monastero, altri dopo anni in comunità segrete dovevano impararla da zero, spesso sotto la guida di monaci invitati dalle province polacche. Questioni che sembrerebbero ovvie, come stabilire l’ordine delle messe domenicali e chi le celebrerà, si rivelarono novità per molti di loro abituati a festeggiare a casa quando era il momento opportuno. In alcune chiese gli orari delle messe erano determinati tramite votazione dei fedeli, cosa che per un polacco abituato all’ordine della messa deciso dal sacerdote, rappresentava una novità. Ho sperimentato gli effetti della separazione tra i paesi vicini ai tempi del comunismo, chiedendomi perché in Polonia si sapesse così poco sul destino postbellico della Chiesa in Repubblica Ceca e Slovacchia. In una società ceca molto secolarizzata l’accoglienza delle parole del Papa, semplici e rivolte a tutti, non solo ai credenti, fu entusiasta e il Presidente Vaclav Havel sebbene agnostico, fu molto colpito dal Papa. Gli slovacchi cattolici che arrivavano in così gran numero, legalmente o no, in Polonia durante i suoi primi tre pellegrinaggi verso la Patria, reagirono ancora più calorosamente al Papa.
Altrettanto calorosamente gli Sloveni accolsero il Papa nel 1996, ricordando con gratitudine che la Santa Sede era stata una delle prime a riconoscere nel 1991 l’indipendenza del loro paese, emerso dalla dissoluzione della Federazione Jugoslava. La visita del Papa fu uno degli eventi che consolidarono la società e le omelie predicate in lingua slovena diedero un valore aggiunto alla cultura della nazione con solo due milioni di abitanti. Voci d’insoddisfazione per la visita vennero dagli intellettuali di sinistra ex-jugoslavi, che mi fecero rendere conto delle divisioni esistenti in una società sempre più laicizzata dopo anni di comunismo.
Allo stadio di Sarajevo, nell’aprile 1997, ho visto con quanta attenzione le persone di diverse confessioni esauste dalla guerra ascoltavano la voce del Papa. La città chiuse simbolicamente gli eventi europei del ventesimo secolo - dall’assassinio dell’arciduca Ferdinando, che portò allo scoppio della Prima guerra mondiale, al conflitto di fine secolo in cui la città e i loro abitanti soffrirono tanto. Giovanni Paolo II si rammaricò di non aver potuto visitare la città assediata qualche anno prima, quando con la sua presenza sperava di porre fine alla guerra fratricida.
La guerra terminò formalmente alla fine del 1995, ma ciò non significava che regnasse la pace; le pattuglie statunitensi rilevarono esplosivi sulla via del Papa dall’aeroporto al centro e tutti gli eventi pianificati furono ritardati perché occorreva ricontrollare tutti i luoghi in cui si sarebbe recato. Il tempo preparò uno scenario inaspettato per la Messa celebrata dal Papa, poichè nella città si susseguirono tre stagioni, inverno, primavera ed estate nell’arco di poche ore e si alternarono neve e sole Mediterraneo.
Ricordo con tristezza le voci critiche provenienti dalla Bosnia: i francescani lamentavano l’indifferenza del Vaticano riguardo al destino dei cattolici repressi nella parte orientale del paese dai Serbi ortodossi; l’arcivescovo Franjo Komarica di Banja Luka non nascose il suo dolore, mostrando chiese distrutte e case abbandonate dopo l’esodo della comunità cattolica della sua diocesi. Mi recai in alcuni di questi posti con il card. Roger Etchegaray e l’ex primo ministro polacco Tadeusz Mazowiecki nell’aprile 1998, in occasione della riunione all’estero del comitato Justitia et Pax. Mi rimase una sensazione di terribile tristezza nel vedere l’enormità della barbarie avvenute nel cuore dell’Europa, a circa 700 km da Roma. Gli appelli del vescovo Komarica affinché una diocesi polacca si prendesse cura di una parrocchia nella propria diocesi, non ebbe risposta, il che dimostrò quanto sarebbe stato difficile trovare espressioni pratiche di solidarietà nei confronti dei bisognosi e quanto ci si fosse allontanati dall’insegnamento del Papa.
A Lourdes, nell’agosto 2004, Giovanni Paolo II, malato e fisicamente debole, mostrò con la sua presenza e la sua forza di spirito il senso del soffrire ai malati lì radunati; insegnò a trovare fede e speranza nella prova alla quale furono sottoposti. Ho visto il sorriso sui volti delle persone tormentate dalla malattia, quando compresero di non essere soli soli nella loro sofferenza. La forza dello spirito del Papa in netto contrasto con la sua fragilità fisica suscitava grande stupore. Lourdes è un luogo in cui si ha l’impressione tangibile che la fede e la benevolenza regnino ad ogni passo, e la Grotta e le sorgenti miracolose guariscano le ferite spirituali e fisiche.